Brevi spunti di riflessione ART. 647 C.P.C.
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Brevi spunti di riflessione ART. 647 C.P.C.

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Brevi spunti di riflessione ART. 647 C.P.C.

REVI SPUNTI di RIFLESSIONE sui RAPPORTI tra RICHIESTA di EMISSIONE del DECRETO EX ART. 647 C.P.C. ed AMMISSIONE AL PASSIVO FALLIMENTARE DEL CREDITO INGIUNTO (COMMENTO A CASS. CIV., ORDINANZA 26 APRILE 2017, N. 10208) di Paolo Calabretta

SOMMARIO: I. Riflessioni sui rapporti tra la richiesta di emissione del decreto ex art. 647 c.p.c. e l’ammissione al passivo fallimentare del credito ingiunto. II. Commento a Cass. Civ., ordinanza 26 aprile 2017, n. 10208.

I. RIFLESSIONI SUI RAPPORTI TRA LA RICHIESTA DI EMISSIONE DEL DECRETO EX ART. 647 C.P.C. E L’AMMISSIONE AL PASSIVO
FALLIMENTARE DEL CREDITO INGIUNTO.
Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nell’affermare il seguente principio: “Il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la ritualità della notificazione, lo dichiari, in mancanza di opposizione o di costituzione dell’opponente, esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., laddove, in caso di opposizione, come si evince dal coordinato disposto degli artt. 653 e 308 c.p.c., basta che il relativo giudizio si sia estinto e che, al momento della sentenza di fallimento, sia decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso l’ordinanza di estinzione.” (Cass. Civ., sez. VI, 29/02/2016, n. 3987).
In precedenza, la Corte di Cassazione aveva statuito, nei medesimi termini, che: “Il decreto ingiuntivo non munito, prima del fallimento, di dichiarazione di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale, né può acquisire tale valore con successivo decreto di esecutorietà per mancata opposizione, perché, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato in concorso con i creditori in sede di verificazione del passivo”. (Cass. Civ., sez. I,27/01/2014, n. 1650).

Ora – senza volere in questa sede confutare i suindicati arresti giurisprudenziali – si intende sottoporre una questione pratica per gli operatori del diritto. Il creditore ricorrente, una volta decorso il termine di cui all’art. 641, 1° (ovvero 2°) comma c.p.c., è onerato di richiedere in cancelleria la dichiarazione di cui al
suindicato art. 647 c.p.c.. Ora, può accadere che – una volta effettuata tale richiesta – nelle more tra tale data
e quella in cui venga emesso il decreto di cui all’art. 647 c.p.c., sopravvenga la dichiarazione di fallimento della parte ingiunta. Ebbene, a mio sommesso avviso, in tale ipotesi – nient’affatto infrequente, atteso
che, di regola, appena si manifestano i sintomi dell’insolvenza, i creditori si affrettano a ricorrere in via monitoria – non potrebbe certo ritenersi imputabile a parte ricorrente che il D.I. rimanga sfornito della dichiarazione giudiziale di definitiva esecutività.

Sul punto, potrebbe applicarsi, mutatis mutandis, un dictum delle SS.UU. della Corte di Cassazione, la quale, sia pure con riferimento ad altra fattispecie, ha statuito che: “L’art. 1137 c.c. non disciplina la forma delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, che vanno pertanto proposte con citazione, in applicazione della regola dettata dall’art. 163 c.p.c. L’adozione della forma del ricorso non esclude l’idoneità al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale, a patto che l’atto sia presentato al giudice, e non anche notificato, entro i trenta giorni previsti dall’art. 1137 c.c., atteso che estendere alla notificazione la necessità del rispetto del termine non risponde ad alcuno specifico e concreto interesse del convenuto, mentre grava l’attore di un incombente il cui inadempimento può non dipendere da una sua inerzia, ma dai tempi impiegati dall’ufficio giudiziario per la pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione”. (Cass. Civ., sez. un., 14/04/2011, n. 8491).

Ne deriva come, stante la regola che gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda, il provvedimento che concede la definitiva esecutorietà del D.I., sia pure emesso in data successiva alla sopravvenuta sentenza dichiarativa di fallimento, dovrebbe – in tale ipotesi – ritenersi opponibile nei confronti della massa fallimentare, in quanto richiesto in data antecedente. Invero, la giurisprudenza ha rimarcato che la dichiarazione di esecutività emessa dal giudice ex art. 647 c.p.c. è provvedimento di natura giurisdizionale, diverso dalla
mera attestazione, da parte del cancelliere, della mancata opposizione dell’ingiunto, nel termine di cui all’art. 641, comma 1, che ne costituisce solo il presupposto di fatto (Cass. I, n. 23202/2013).

Se, quindi, la dichiarazione di esecutività emessa dal giudice ex art. 647 è provvedimento di natura giurisdizionale, l’istanza del creditore che richieda l’emissione del decreto ex art. 647 c.p.c. deve qualificarsi non già un’attività materiale, ma vera e propria domanda giudiziaria: e poiché, come già osservava in dottrina, Chiovenda, i tempi processuali non devono tornare a danno di chi ha ragione, ove il diritto dell’attore sia riconosciuto, ciò deve avvenire come se avvenisse al momento della proposizione della domanda.

Peraltro, è appena il caso di rilevare come la dichiarazione di esecutività del D.I.1 Cfr. C. MANDRIOLI, Diritto processuale Civile, Torino 2009, vol. II, p. 27) comporti l’obbligo per il cancelliere di inviare gli atti all’Agenzia delle Entrate per la tassazione dell’imposta di registro. Sicchè, nell’ipotesi in cui parte ricorrente ignori il sopravvenuto fallimento di parte ingiunta e non abbia rinunziato alla richiesta di dichiarazione di definitiva esecutività del decreto ingiuntivo in precedenza depositata, (ed ove si debbano applicare i principi di diritto fatti propri dalla suindicata giurisprudenza di legittimità), si troverà obbligata a pagare tale imposta, il cui importo non potrà (nemmeno questo) insinuare al passivo fallimentare. Come dire … oltre al danno, la beffa! (o, per dirla in termini più eleganti Summumius, summa iniuria).

Non solo. Nell’ipotesi in cui il creditore non si possa insinuare al passivo producendo il decreto ingiuntivo, in quanto non seguito dall’emissione del decreto ex art. 647 c.p.c., egli si troverebbe costretto, ove la documentazione prodotta nel fascicolo della fase monitoria non fosse opponibile al curatore – si pensi, ad
esempio, all’ipotesi in cui il creditore abbia prodotto in sede monitoria gli estratti autentici delle scritture contabili, che, ai sensi dell’art. 634, 2° comma, c.p.c. costituiscono “prove scritte idonee”, documentazione che, però, non è opponibile al curatore in sede di verifica dei crediti (vedasi, ex multis, Cassazione civile, sez. I,
20/04/2016, n. 7972) – a proporre ricorso per opposizione allo stato passivo, facendo valere il credito nei modi ordinari. Con l’ulteriore conseguenza che il ricorrente verrebbe – pure – onerato del pagamento dell’imposta di registro relativa all’emittendo Decreto ex art. 99 L. F.. II. COMMENTO a CASS. CIV., ORDINANZA 26 APRILE 2017, N. 10208. Atteso quanto ora esposto, appare criticabile quanto recentemente statuito dalla Cassazione civile Sez. VI – 1 Ordinanza del 26 aprile 2017 n. 10208.

Invero, in tale arresto, leggesi che parte ricorrente, con il secondo motivo di ricorso, esponeva quanto segue: “… a seguito dell’introduzione del processo civile telematico, il deposito dell’istanza volta all’ottenimento della declaratoria di esecutività deve avvenire in forma esclusivamente telematica e quindi in casi come quello in esame dovrebbe necessariamente considerarsi, ai fini dell’opponibilità al fallimento, la data nella quale il creditore abbia domandato la dichiarazione di esecutività, non potendo il creditore soffrire un pregiudizio a causa del tempo impiegato dal giudice per emettere tale dichiarazione (che, appunto, potrebbe intervenire dopo il fallimento)”.

Ebbene, su tale motivo di ricorso, la Corte di legittimità – dopo avere ribadito la propria giurisprudenza in materia e cioè che: “… il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi della L. Fall., art. 52″ (Cass. civ. sezione 1, nn. 1650 del 27 gennaio 2014, 2112 del 31 gennaio 2014 e 23202 dell’11 ottobre
2013)” – ha poi aggiunto che: “ … Tali considerazioni assorbono ogni ulteriore questione concernente i possibili ritardi del giudice e le possibili conseguenze – per altro riguardanti uno scenario solo ipotetico e non pertinenti nel caso in esame – che derivano dall’introduzione del processo civile telematico”.

Dall’inciso come sopra riportato nella stringata motivazione, pertanto, sembrerebbe che la Corte abbia ritenuto non pertinente, nel caso in esame, il suindicato rilievo. Resta il fatto, però, che la Corte, più in generale, abbia ritenuto che il proprio indirizzo giurisprudenziale contrario sia tale da assorbire ogni diversa considerazione in ordine ai possibili ritardi (imputabili all’apparato giudiziario) nell’emissione del decreto che dichiara la definitiva esecutività.

Ne deriva come la questione, tutt’altro che trascurabile, meriti di essere riproposta all’attenzione dei giudizi di merito e, quindi, facendo valere tale tesi difensiva, ove ne ricorrano i presupposti di fatto, già in seno all’istanza di ammissione al passivo fallimentare. Auspicando che tali principi vengano presto recepiti dalla giurisprudenza.